La teologia, sia come esperienza di vita, cioè
come fede che vuol rispondere alla volontà di Dio, sia come memoria,
riflessione e comunicazione scritta o parlata che si fa sull'esperienza
di fede, fa parte e sta dentro al campo più ampio della religione.
Frequentemente la religione e la cultura vengono inserite
all'interno del livello ideologico della struttura sociale, come se la
cultura e la religione facessero necessariamente parte dei meccanismi di
giustificazione che hanno la finalità di far accettare il sistema
sociale vigente come il più giusto ed il più buono. Tuttavia
la storia e la prassi pastorale dimostrano il contrario. Le funzioni che
la cultura e la religione hanno nella società sono molto differenti
dalla funzione dell'ideologia.
La società lavora (economia), si riproduce (sessualità
e famiglia), forma raggruppamenti per funzionare meglio (gruppi sociali),
si organizza per esercitare e lottare per il potere (politica), istruisce
i suoi membri perché svolgano meglio il loro lavoro e facciano funzionare
bene i raggruppamenti (educazione), si giustifica come il miglior sistema
possibile (ideologia). Questa complesso di relazioni costituisce una struttura
sociale.
La cultura ha la finalità di offrire l'orientamento
che un gruppo umano vuol dare alla sua vita o esistenza sociale. La cultura
non è necessariamente il suo modo di vita nella struttura sociale,
al cui interno, di fatto, vivono molti gruppi, ognuno con la propria cultura,
che definisce il suo lavoro, la sua sessualità, il suo modo di organizzarsi,
il suo potere o mancanza di potere, il suo modo di educarsi in una maniera
totalmente peculiare, propria. Un gruppo potrà accumulare il prodotto
del suo lavoro per il soddisfacimento delle esigenze strettamente personali
o della propria famiglia; un altro, invece, potrà decidere di utilizzare
il frutto del proprio lavoro per condividerlo, per far festa, ecc… Un gruppo
vorrà il potere come piattaforma per arricchirsi o per esercitare
un controllo; un altro, invece, lo utilizzerà per ottenere un prestigio
basato sul servizio agli altri. Ogni livello della cultura, così,
riceve una finalità diversa secondo la cultura del gruppo sociale.
La cultura non è semplicemente il modo di vita, ma il modo in cui
si orienta o si limita la vita, e può concordare o essere in totale
contrasto con la struttura sociale dominante. É ciò che avviene
normalmente con gruppi di emigranti: vivono all'interno della struttura
sociale di un sistema, però la loro cultura non è necessariamente
quella del gruppo dominante.
La religione si propone essenzialmente di dare trascendenza
alla vita quotidiana, cioè scoprire, vivere e rispondere alla presenza
di Dio che agisce e vive nel popolo secondo un disegno comunicato o rivelato
al gruppo che segue quella religione. Tale rivelazione viene percepita
quasi sempre come una tradizione ereditata o come una percezione attuale.
Quando si afferma che la terra si ama e si rispetta perché
essa è la Pacha Mama, Dios-Mama che continuamente dà la vita
al popolo, ci troviamo dinanzi ad un atteggiamento religioso che dà
al lavoro una dimensione trascendente, si parla nell'ottica della fede,
ponendo la propria esperienza di lavoro in una situazione completamente
nuova.
É necessario non perdere di vista che anche se
l'ideologia fa riferimento a valori ed antivalori culturali ed a elementi
religiosi al fine di rafforzare la sua funzione ed assicurare che il sistema
sociale in cui si vive sia desiderabile ed amato dai gruppi sociali come
se fosse la volontà di Dio, questo non toglie alla religione la
sua funzione trascendente, ma dimostra soltanto il grado di abilità
dell'apparato ideologico al servizio del potere.
Schematicamente, possiamo così riassumere le nostre
affermazioni:
Versanti della Teologia india
L'esperienza religiosa dei popoli indigeni è
un elemento storico costante. Questi gruppi, cioè, erano religiosi
molti secoli prima dell'arrivo degli europei nel continente e dopo, nonostante
le difficoltà, hanno continuato ad esserlo. Inoltre, l'esperienza
di prima, sotto molte forme, è presente nella religione di oggi.
Se prendiamo sufficientemente sul serio la dottrina della presenza di Dio
e di Cristo nelle culture e religioni autoctone (Ad Gentes 6), il cristianesimo
di coloro che sono ora battezzati, è la continuità anche
con la preparazione evangelica già presente in loro. Questa esperienza
religiosa è un'unica esperienza che si è fatta profonda e
che oggi vuol realizzare la sua autonomia. Nello stesso tempo, questa è
un'esperienza teologica continua, come esperienza di Dio nella storia e
come coscienza di essere popolo all'interno di un piano di salvezza.
Già da vari anni è sorta l'inquietudine
nei popoli indios e negli agenti di pastorale che vivono con loro, di riflettere
su questa esperienza, di sistematizzarla e di comunicarla ad altri gruppi
e comunità. Questa esperienza teologica, già sistematizzata
e scritta, anche se non ha la stessa continuità dell'altra, ha senso
solo se si trasforma effettivamente in continuità con essa. Dovrà
essere in contatto con quanto precedentemente è stato vissuto, riflettuto
e fatto. Alcune volte fu sistematizzata come "narrazione" o "racconto",
e quasi nessuno si rese conto che ciò era teologia; altre volte
si presentò in forma di rito, con simboli e gesti propri e fu vissuta
come qualcosa di "tollerato", insieme al religioso; in altre occasioni
la teologia fu la motivazione silenziosa di forme quotidiane di vivere
e di essere religioso. La sfida di oggi è far sorgere questa esperienza
teologica in modo che possa essere comunicata non soltanto ai membri dello
stesso gruppo, ma ad altri gruppi e comunità, anche non indigeni,
che potranno arricchirsi con l'esperienza dei popoli indios e, nello stesso
tempo, mettere in comune le loro conquiste per l'arricchimento di altri.
Qui nasce il problema del "confronto". L'esperienza religiosa
dei popoli indios, per rinnovarsi e vitalizzarsi, deve essere perfettamente
radicata e diretta verso l'esperienza di vita all'interno della struttura
sociale. Si deve, inoltre, confrontarsi continuamente con il progetto di
redenzione, futuro e salvezza proprio del gruppo. Ebbene, questo progetto,
così come si percepisce e si vive attualmente, in quasi tutti gli
attuali popoli indios, ha due fonti:
Per questo molti si chiedono se la teologia india
non sarà maggioritariamente india-cristiana. Molti non accettano
tale affermazione perché la percepiscono come una perdita della
tanto desiderata identità, che oggi li consolida e rafforza come
popoli.
Alcuni teologi, indios o non-indios, pensano che l'esperienza
religiosa indigena deve essere confrontata con le due fonti, l'india e
la cristiana.
Altri gruppi sono convinti che, nelle attuali circostanze
dell'umanità, il confronto deve essere fatto solo partendo dalla
propria fonte tradizionale. É questo che deve essere ancora chiarito
e risolto. Il problema è ancor più incandescente via via
che molte analisi dimostrano che in alcuni gruppi indigeni gli elementi
culturali o religiosi cristiani assunti, non funzionano realmente né
come "visione cristiana" né come "trascendenza cristiana" per la
loro esperienza quotidiana; sono piuttosto utilizzati come "veicoli" per
poter vivere molti aspetti autoctoni, i quali determinano ampiamente l'orizzonte
e la trascendenza della loro vita. Tuttavia, ci sono anche molte esperienze
indigene in cui gli elementi cristiani sono stati approfonditi, riformulati,
ripensati, accettati e resi funzionali, divenendo espressione di una religione
indigena nuova.
Il magistero e la teologia india
Nei confronti delle culture e religioni indigene,
normalmente le chiese, sia cattoliche che protestanti, usavano una teologia
apologetica che, fondamentalmente, vedeva in esse errori e deviazioni.
L'"evento Papa Giovanni XXIII" portò un vento nuovo, ma nonostante
la sua parola ed altre voci nuove, si continuò a vivere un'inerzia
apologetica di cui non tutti ci siamo ancora totalmente liberati.
L'estremo a cui giunse questo tipo di teologia fu di
trattare le culture e tradizioni religiose come ignoranza, superstizione,
stregoneria e persino opera del demonio. Tale atteggiamento teologico e
le sue ripercussioni pastorali nella base del Popolo di Dio Indio, hanno
lasciato un'impronta molto profonda, al punto che di fronte ad una pastorale
più coerente con il metodo del Vangelo, molti indigeni non sono
ancora riusciti ad assimilare questa apertura né il cambiamento
che essa richiede.
In anni precedenti si praticava anche una teologia dimostrativa
o illuminativa del magistero la cui finalità basilare era dimostrare
che le affermazioni del magistero si fondavano sulla rivelazione e sulla
tradizione delle chiese. La più sottile di queste posizioni teologiche
è quella di illuminare il magistero in modo che i fedeli accettino
i suoi insegnamenti come necessari per la morale ed i buoni costumi.
Nel frattempo, il mondo anglosassone, soprattutto le
confessioni protestanti, elaborò una prospettiva teologica prendendo
come chiave di lettura la Storia della Salvezza. La pastorale ne ricevette
un impulso inedito che animò di uno spirito nuovo l'azione delle
chiese, con una nuova forma di fede, più percorribile, più
vissuta, più trasformatrice. Tutto il cristianesimo ha tratto grande
beneficio da questa teologia, tanto che sarebbe incomprensibile ogni cambiamento
successivo senza considerare l'apporto protestante. Nel mondo eurolatino,
soprattutto francese, con la nouvelle vague de la théologie, o con
quella che gli italiani chiamarono la svolta della teologia, emerse la
necessità che la teologia si nutrisse dei problemi contemporanei,
delle varie correnti di pensiero, della nuova situazione della cultura
in quel continente. La teologia entrò in tutti gli ambiti, si costituì
un clima di dialogo teologico che fece avanzare velocemente la teologia.
Videro la luce cose realmente nuove.
In questo clima teologico, Giovanni XXIII proclama il
Concilio Vaticano II. La Chiesa prese il suo posto nel mondo contemporaneo;
riesaminò il senso che, nelle nuove circostanze, aveva la Rivelazione;
ripensò il suo essere stesso di chiesa comprendendosi come Popolo
di Dio, essenzialmente missionario. E propose un atteggiamento nuovo verso
le culture, affermando che in esse è presente la rivelazione di
Dio e dichiarando, tra l'altro, la libertà religiosa dei popoli.
Per il mondo cattolico, il Concilio significò aprire tutte le finestre
per far entrare l'aria nuova che avrebbe dato nuova vita ai polmoni di
tutti i credenti, spingendoli in modo diverso al loro impegno pastorale,
sia nel mondo occidentale che, soprattutto, verso il mondo asiatico, africano
e latinoamericano.
Nel 1970 Gustavo Gutiérez pubblica la Teologia
della liberazione. É la sistematizzazione di una fede vissuta nelle
comunità cristiane dei cosiddetti "Pueblos Jóvenes" (1) di
Lima. Con questa teologia si giunse alla certezza che la fede si vive in
una realtà che è necessario analizzare per comprenderla e
che l'obiettivo della religione e della spiritualità è la
liberazione integrale dei popoli come segno ed anticipo storico del Regno
di Dio che attende la sua pienezza con il ritorno di Cristo. Questa teologia
fu ripresa, in vari modi, dall'Assemblea del CELAM a Medellín e
dal magistero diocesano di molti vescovi, commissioni e varie conferenze
episcopali che assunsero il compito di applicare il Concilio in una situazione
nuova che richiedeva un metodo nuovo ed una nuova finalità: la liberazione
integrale.
Nel frattempo, in tutto questo processo gli indigeni
non contavano affatto, a fatica alcune volte vennero citati. Le chiese,
cattolica e protestante, in molti luoghi cominciarono a camminare nel nuovo
impegno globale di questa teologia, però, quando gli indigeni vi
apparivano, non erano visti come indigeni, ma soltanto come poveri; non
venivano presi affatto in considerazione nella loro specificità.
Ciò divenne sempre più chiaro via via che gli stessi indios
analizzavano la loro situazione sociale e pastorale. Anche la loro cultura
oppressa richiedeva liberazione e la finalità peculiare che le culture
davano all'esistenza dei popoli, contestualizzava in un modo diverso la
loro situazione sociale.
L'itinerario di coloro che seguivano pastoralmente gli
indigeni subì diversi cambiamenti: da posizioni meramente assistenziali
si passò ad azioni tese a rispondere ad una realtà di emarginazione
e di dipendenza. La pastorale ricercò, allora, l'integrazione, poi
la promozione integrale, successivamente l'evangelizzazione-liberazione
integrali.
Da una Pastorale Indigenista, fatta da non-indigeni a
favore degli indigeni, si giunse finalmente ad una Pastorale Indigena,
fatta da indigeni per gli indigeni, con l'appoggio di non-indigeni. Queste
pastorali fecero emergere l'esistenza e la conflittualità di molti
popoli diversi che esistevano nei cosiddetti Stati nazionali; di conseguenza
sia la pratica che la riflessione della Pastorale Indi-gena divennero un
processo conflittuale dei popoli indigeni all'interno delle chiese.
Il Concilio Vaticano II, con i suoi documenti Ad Gentes
(sulle missioni), Lumen Gentium (sulla Chiesa), Dei Verbum (sulla rivelazione),
Gaudium et Spes (sull'azione pastorale nel mondo contemporaneo) e Dignitatis
Huma-nae (sulla libertà religiosa) aveva offerto molti elementi
per nutrire la Pastorale Indigena o Indigenista, le quali, di fatto, tentavano
decisamente di divenire pastorali specifiche distinte dalle pastorali generali
delle diocesi e dei vari paesi. L'azione, però, superò la
riflessione del Magistero e successe così che quando arrivavano
le decisioni del Magistero, si constatava che la pratica era già
andata oltre, si trovava in luoghi non illuminati dal Concilio con la necessaria
chiarezza per individuare dove doveva indirizzarsi l'azione. Nel momento
in cui arrivava l'illuminazione, la pastorale era già più
avanti.
Inoltre le traduzioni dei testi conciliari, in questi
punti chiave della cultura e della rivelazione, riflettevano più
il punto di vista etnocentrico o ecclesiocentrico dei traduttori che quello
dei padri conciliari, il quale, anche se non essenzialmente diverso, offriva
sfumature che avrebbero permesso di camminare con più sicurezza
e tranquillità nel servizio pastorale e nella riflessione della
fede india.
Bisogna, infine, sottolineare che le urgenze di sopravvivenza
non lasciano spazio per grandi elaborazioni. Un missionario profondamente
impegnato in Paraguay mi diceva: «Finché difendiamo con gli
indios la terra dalla voracità delle multinazionali, non abbiamo
tempo di far teologia». Si vive la Teologia India, però non
facciamo una teologia che riflette su se stessa.
Oggi, i popoli indigeni, spinti dalla loro pratica di
fede, insistono sulla necessità di una riflessione propria, non
soltanto fatta da loro, ma soprattutto fatta come l'altra teologia che
si esprime con gli elementi di comprensione, intendimento e comunicazione
della loro cultura, come un servizio fatto nell'ottica della loro cultura;
si impone la necessità di far chiarezza sull'oggetto, trovare un
metodo, definire o articolare fonti, arricchire ed affinare mezzi, riconoscere
il soggetto.
Lo stimolo del Vaticano II
Potrebbe sembrare anacronistico ritornare a quanto fu proposto dal Concilio su cultura, religione e rivelazione nei popoli. Ci sembra, però, che questa miniera non sia ancora esaurita e che le sue possibilità potrebbero essere sorprendenti anche oggi. Il Magistero successivo, molto abbondante sia in Paolo VI che in Giovanni Paolo II, ne sono il riflesso e la continuità.
Verso le culture indigene
Il Concilio insegna che la natura umana e la cultura
sono intimamente connesse (GS 53); di conseguenza un'evangelizzazione e
pastorale che vogliano essere veramente umane o essenzialmente umane devono
essere necessariamente una buona notizia non soltanto per i "gruppi umani",
ma per i "gruppi umani con la propria cultura". La cultura promuove l'integrità
umana (GS 53), pertanto lo sviluppo della cultura è lo sviluppo
dell'uomo; di conseguenza, la Chiesa che ritiene parte essenziale della
sua missione lo sviluppo umano, deve necessariamente promuovere lo sviluppo
delle culture, anche perché afferma che solo con la cultura si può
accedere alla perfezione della persona umana e della comunità (GS
53). É la cultura che può offrire questa visione di pienezza
all'esperienza sociale delle comunità indigene, per cui la religione
e la fede devono passare necessariamente alla dinamica della storia mediante
le culture. É chiaro che la cultura deve avere libertà di
agire ed esprimersi. La Teologia India è vivere, pensare, esprimere
la fede dei popoli indios e, pertanto, in concreto, la libertà propria
ed inalienabile delle culture deve comprendere anche la libertà
che la fede si esprima e si attui secondo la cosmovisione culturale propria
di ogni popolo indigeno. Il Concilio, infatti, difendeva il diritto al
rispetto dell'integrità delle culture (GS 59), quell'integrità
che, per essere veramente tale, deve comprendere anche le teologie indie.
E non può reggere l'argomento che le teologie indie devono usare
il rigore speculativo dell'unica teologia, perché il Concilio rivendica
esplicitamente il diritto all'autonomia delle culture anche minoritarie
(GS 59); ancor più, quindi, nel nostro caso, in cui molte culture
indie sono maggioritarie. Il ruolo della religione e della teologia certamente
aiutano alla costruzione di un mondo nuovo (GS 57), in cui l'umanità
trovi la sua unità; ma tale unità sarà possibile solo
nel rispetto e difesa della diversità delle culture (GS 54). Se
non si fa Teologia India, si corre sempre il pericolo che l'unità
verso cui si incammina il mondo rimanga in molte nazioni senza forza e
finalità, senza valore. Il Concilio, inoltre, assicurava che tradizioni
e patrimoni culturali definiscono l'ambito della storia (GS 53), da ciò
non può quindi essere escluso l'indio, non solo come presenza reale,
ma come orizzonte e spirito. In tale prospettiva, la teologia india può
dare il proprio contributo affinché le società indirizzino
la loro cultura verso le vie per cui l'umanità perfeziona questa
la tappa in cui si trova e la porti alla pienezza (GS 60. 54).
Oggi si fa sempre più forte l'esigenza di una
teologia india, ma constatiamo con realismo, come già riconosceva
il Concilio, che tra la cultura e le istituzioni cristiane l'accordo è
difficile (GS 62), o, come scriveva Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi,
che la separazione tra Vangelo e cultura è il dramma del nostro
tempo.
Le religioni indigene
Nell'ottica del Concilio la Teologia India trova la sua
ragion d'essere nel fatto che «quando la Chiesa arriva ai popoli
in essi sono già presenti Semi della Parola» (GS 61). Tale
posizione lascia il sospetto che nel dialogo e nell'ecumenismo, i cristiani
partino sempre da una posizione di superiorità dinnzi alle altre
religioni. Il cristianesimo ha Cristo, le altre religioni solo "i Semi
della Parola". Del resto, è lo stesso criterio usato dalla Chiesa
nei confronti delle culture greco-latine; ma mentre esse crebbero e si
svilupparono all'interno del cristianesimo, la cattiva interpretazione
che è stata data della missione e dell'evangelizzazione, ha fatto
sì che le culture non occidentali non potessero crescere e svilupparsi
all'interno del cristianesimo - quando non contro - di esso. Da questi
semi debbono germogliare, con frutto proprio, la Teologia India.
Del resto, la certezza che l'annuncio di Cristo continuamente
rinnova le culture (GS 58), purifica ed eleva i costumi dei popoli (GS
61), dovrebbe essere inteso con lo stesso diritto e nello stesso senso
con cui la Chiesa agì con le culture greco-latine, cioè nel
senso della ricapitolazione (GS 58), che è quella di fecondare e
completare, non di censurare e abbandonare alle decisioni del missionario,
evangelizzatore o pastore. Per questo il Concilio dice che il Vangelo rinnova
dall'interno le doti dei popoli (GS 58), secondo la loro specifica dinamica
e nel rispetto della loro capacità di effettuare tale rinnovamento.
Un punto conflittuale che ha suscitato più problemi
di quanti ne ha risolti, è quello che dice che la Chiesa, con la
sua opera «procura che quanto di buono si trova seminato nel cuore
e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei popoli, non
solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a gloria
di Dio, confusione del demonio e felicità dell'uomo» (LG 17).
Tali affermazioni hanno suscitato molte difficoltà.
Se ciò che troviamo nelle culture è buono,
non ha bisogno di essere purificato, elevato, perfezionato. Il testo dovrebbe
essere approfondito, distinguendo ciò che attua l'azione missionaria
e pastorale della Chiesa, ciò che opera la grazia di Dio e ciò
che spetta ai popoli nel rispondere al Vangelo.
Del resto, Dio, con la sua presenza in mezzo ai popoli,
concede la sua grazia, la quale libera la verità e salvaguarda da
qualsiasi contagio del maligno per restaurare tutto in Cristo (AG 9). Il
senso di tutto ciò che insegna il Concilio sulle culture, religioni
e rivelazioni dovrebbe essere proprio questo e non quell'interpretazione
che permette al missionario ed all'evangelizzatore di entrare con la falce
in mano a separare e tagliare, con il grave pericolo che, pretendendo di
togliere la zizzania, strappi anche le piante buone; ed un'imparziale analisi
storica dimostra che, come Chiesa, ci siamo così comportati in molte
occasioni.
Per questo i padri conciliari ci mettono in guardia sul
pericolo che i rapporti interculturali facciano perdere la fedeltà
viva alle tradizioni ed ai costumi dei popoli (GS 56) e ci rendono coscienti
che per poter dare testimonianza di Cristo è necessario amare la
vita e la cultura dei popoli (AG 11). A volte ci contentiamo di conoscerle,
studiarle, diffonderle - il che è già moltissimo -, però
raramente si amano, non solo come "cose", ma come "esperienza di vita"
valida.
La rivelazione di Dio nelle culture
Al ritorno dall'esilio - tra il 6° ed il 5° secolo
a.C. -, quando Israele aveva ancora forte nella memoria l'incontro con
altri popoli in mezzo ai quali aveva potuto sperimentare la presenza di
Dio, furono scritti i racconti della Genesi, in cui l'esperienza dell'alleanza
fatta da Dio con Abramo si rivelava ancora aperta a tutti i popoli per
l'alleanza con Adamo. Il contenuto centrale di quei racconti si ispirò
alla tradizione dell'Epopea di Gilgames, testo sacro di un altro popolo,
non solo diverso da Israele, ma con cui entrò in contatto in situazioni
conflittuali.
A questo periodo risale il libro di Malachia, che nella
Bibbia è considerato la porta dei vangeli. In esso leggiamo: «Dall'oriente
all'occidente grande è il mio nome tra i popoli e in ogni luogo
è offerto al mio nome un sacrificio puro» (1,11). Per il cristianesimo
questo dovrebbe essere uno dei punti chiave per ciò che si riferisce
al significato salvifico delle altre religioni e culture. Questo passo
fu interpretato dal Concilio di Trento (Sessione 22, cap. 1; Denzinger
939) e dal Vaticano II (LG 17, nota 22), come il sacrificio messianico
che si sarebbe poi celebrato in tutto il mondo. Senza negare questa interpretazione,
ne presentiamo un'altra, nata nel contesto di cui abbiamo parlato. Malachia,
come la maggior parte della gente del suo tempo, scrisse questo passo -
e proprio in un momento in cui Dio non accetta la liturgia d'Israele -
pensando alla cultura, religione e rivelazione di altri popoli con cui
erano appena stati in contatto, per cui esprime la convinzione che i popoli
esaltano il nome di Dio e con i loro riti gli offrono sacrifici puri.
La tradizione dei padri va oltre l'interpretazione che
offriamo. La Didaché, Giustino, Atana-sio, Cirillo, Gregorio Nazianzeno,
Ambrogio, Ireneo, Agostino, e molti altri che costituiscono una posizione
costante (AG 3), proclamano che non si redime ciò che Cristo non
assume, ma egli assunse integra la natura umana, eccetto il peccato. Dato
che la natura umana e la cultura sono intimamente collegate (GS 3), assumendo
la natura umana, Cristo ha assunto e redento anche le culture; e questo
trova un'ulteriore conferma nel fatto che i valori culturali e religiosi
della persona, dell'intelligenza, della volontà, della fraternità
furono fondati da Dio (GS 61). Per quanto si riferisce alla missione, tra
il Vangelo e la cultura esistono rapporti molteplici (GS 58).
Il Concilio, quindi, insegna che fin dai tempi più
antichi presso i vari popoli c'è la presenza di Dio in un senso
religioso, anzi vi è presente come Padre (N.AE 2). Per questo i
beni delle culture non sono un ostacolo, ma mezzi per la salvezza (AA 7).
Vivendo secondo le proprie culture, coltivando la terra, svolgendo le attività
proprie della partecipazione nella società, i popoli realizzano
il piano di Dio, perfezionano la creazione, mettono in pratica il comandamento
di servire gli altri (GS 57).
Il compito degli evangelizzatori non è solo quello
di scoprire, ma di far risplendere i Semi della Parola (LG 11), perché
essi chiamano il popolo alla fede (AG 15), facendolo crescere, realizzandosi
come Popolo di Dio (AG 9). É una grande sfida per la Chiesa scoprire
e potenziare questi semi nelle culture indie; sono già passati più
di 500 anni senza che tale obiettivo sia stato raggiunto. Forse ciò
sarà reso possibile dalla promozione culturale della Teologia India.
Le chiese autoctone, in quanto autoctone, nascono dai
semi della Parola di Dio presenti nelle culture (AG 22); esse nasceranno
da ciò che in esse c'era prima della predicazione del Vangelo e
saranno chiese locali autoctone solo se quei semi giungeranno alla loro
pienezza. Non bisogna, però, dimenticare che non soltanto le chiese
autoctone devono maturare sino alla loro pienezza, ma che questo è
un obbligo imposto a tutta la Chiesa di Cristo. La Chiesa si arricchisce
con le varie culture e le culture si arricchiscono con l'insegnamento della
Chiesa, in un'interazione reciproca (GS 58). I padri del Concilio insegnarono
anche che non è possibile diffondere il Vangelo se non si esprime
secondo la vita delle comunità (GS 58). Dopo oltre 500 anni di cristianesimo
in America, rimane ancora aperto l'interrogativo se questo è stato
fatto, se i tentativi per inculturare continuarono, il motivo per cui furono
sospesi, il perché attualmente - nonostante le forti pressioni -
viene escluso da ogni dibattito.
Il Vangelo e la Chiesa non possono esistere senza le
culture. Secondo il Concilio, la Chiesa non può legarsi esclusivamente
e indissolubilmente a nessuna di esse (GS 58; Paolo VI Evangelii Nuntiandi),
però di fatto sia la predicazione del Vangelo come le chiese si
sono legate profondamente alle forme culturali greco-latine, occidentali.
Sono molte le difficoltà che frenano la nascita
delle chiese autoctone e, ancor più, la produzione di teologie autoctone
per esprimere la comprensione e la spiritualità della fede e della
religione, le difficoltà che esistono tra la Chiesa e le culture,
afferma il Concilio, dovranno, alla fine, servire per approfondire la fede
(GS 62).
Il punto di partenza della Teologia India
Riprendiamo adesso il filo della nostra riflessione:
il punto di partenza della Teologia India. Ogni vera teologia, se si nutre
di una religione autentica, non può avere altro punto di partenza
che l'esperienza di fede, espressa secondo le linee fondamentali di ogni
cultura. E se qualche teologia va per altri cammini, dovrà, prima
o poi, ritornare a questo canale comune. E qui è necessario conoscere
un po' le pratiche ed i contenuti della fede degli indigeni. La maggioranza
di essi sono eredità ed esperienza attuale di pratiche e tradizioni
millenarie seguite dagli abitanti originari di questo continente. Però
accanto a questa stupefacente ricchezza di riti e celebrazioni di radice
autoctona, esistono anche prassi ed esperienze che non possono essere comprese
se non alla luce della proclamazione del Vangelo, iniziata nel secolo XVI.
Appare, allora, chiaro che queste esperienze erano basate
su due versanti di rivelazione:
Conclusione
La Teologia India è una realtà viva
nell'esperienza storica e quotidiana delle comunità indigene, vissuta
come riti, canti, interpretazioni, detti, metafore, però soprattutto
come resistenza storica. Ed è paradossale che attualmente ci risulti
difficile precisare in cosa consiste la Teologia India come riflessione,
inserita in un testo discorsivo o in un altro tipo di comunicazione.
Questo punto di partenza non deve perdere in nessun modo
la sua matrice culturale. Se le teologie indie non si esprimono nelle culture
indie, cessano immediatamente di essere "indie", per trasformarsi, come
frequentemente è avvenuto, in una ripetizione mal fatta di altre
teologie entrate a far parte di culture egemoniche, con il pericolo di
adottare da esse le fondamentali idee dominanti.
La forma più rapida, più urgente di fare
teologia india, sarebbe quella di innalzare a livello di riflessione le
esperienze sociali indie che emergono nelle loro religioni, possederle
in modo rinnovato, coscientemente teologale. É necessario avere
la sicurezza che questo è un materiale religioso-culturale e non
soltanto culturale. La vita sociale, orientata dalla cultura, deve confrontarsi
con il dinamismo di trascendenza, che deriva sia dalla fede del popolo,
che crede nella presenza e nell'azione di Dio nella sua storia, che dalla
sua vita culturale di ieri e di oggi. Solo così la Teologia India
starà, come deve stare, nell'arco del passato, del presente e del
futuro degli indios di questa America, che prima fu Tahuantisuyo, Abya-Yala,
Aná-huac o la Tierra de Usen (2). E, è probabile, non sarà
la riflessione dei popoli indios, ma quella delle nazionalità della
loro terra, con il proprio sistema sociale, con il dinamismo culturale
che hanno scelto, nell'amicizia di Dio che si è loro manifestato
in molti modi.
"Amanecer"
Tel./ fax: 0761 912591
|
![]() |